A reader of Il Corriere della Sera writes into Beppe Severigni, a noted expert on Italian culture and longtime observer of American culture, to protest the article that noted the widespread use of dialects in Italy ("L'italiano? No grazie, io parlo dialetto," see previous post). Let's listen in:
Caro Beppe,
Prendo spunto dall'articolo apparso sul Corriere.it un paio di giorni fa riguardante le abitudini linguistiche degli italiani, e vorrei solo proporre una riflessione su come stiamo perdendo per strada un pezzo importante del nostro patrimonio linguistico.
Complice un'ignoranza diffusa in tema di linguistica, ci ostiniamo a chiamare "dialetti" (un termine che, piaccia o meno, porta con sé una connotazione dispregiativa) quelle che i linguisti chiamano semplicemente lingue. Credo che non possiamo certo gioire del fatto che un buon numero di "dialetti" italiani (per esempio il piemontese, il ligure e l'emiliano, ma non solo) siano da tempo del "Red Book of Endangered LANGUAGES" redatto dall'Unesco. Mi auguro che la fonte sia sufficientemente autorevole.
Continuiamo più o meno consciamente ad alimentare lo stereotipo secondo cui il "dialetto" sia cosa da vecchi o da ignoranti dato che, cito dall'articolo, "La scelta del linguaggio è OVVIAMENTE influenzata dal livello di istruzione". Giusto per precisare, ho 27 anni, sono laureato, parlo fluentemente 4 lingue e vado fiero del mio veneto, che, quando torno nella mia terra, mi fa sentire molto più a casa, che non semplicemente parlare un italiano che spesso ho occasione di parlare anche vivendo all'estero.
Se e quando avrò dei figli sarò felice di trasmetterlo anche a loro, diversamente dalla maggior parte delle coppie di oggi che, a quanto pare, considera le sue radici un aspetto di poco conto. Nel 2001 il ministro francese della pubblica istruzione ha ammesso pubblicamente che la politica linguistica nazionale (del tutto simile a quella italiana) ha avuto grosse responsabilità nel regresso delle lingue regionali (occitano, provenzale, etc), che, anche in Francia, sono chiamate "patois", un termine non esattamente positivo. In Italia ci arriveremo mai? Forse quando sarà troppo tardi.
Saluti dalle isole Cayman.
Lorenzo Crosato, lorenzotv@infinito.it
Beppe responds:
Sono d'accordo. In un recente incontro al Circolo della Stampa di Milano anche Dacia Maraini ha proposte di non chiamarli "dialetti", ma "lingue regionali" - quali sono. Un modo per tenerli vivi è usare citazioni in dialetto, invece che nel solito inglese. Personalmente, lo faccio spesso (col cremasco, estremamente efficace!).
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I think the reader raises a good point. There is a richness to the local languages spoken in coffee bars and per la strada in Italy. Can you imagine calling watermelon anything other than cocomero in Florence? Isn't it interesting that in the countryside in some parts of Italy older people still say, "Sono ito," a mix of Latin and Italian? Or how about Italians in northwest Italy who say, "Ma che vous fate?" remembering their French roots?
Sennò, perché io, una straniera, avrei adottato un'accento fiorentino? Ero fiero di imparare a parlare l'italiano senza pronunciare la 'c' in certe parole perché era un modo di avvicinarmi ai miei cari amici fiorentini e toscani.
Viva il fiorentino! (La fiorentina? E' un altro discorso!)
Quello, però, è solamente il mio parere. Cari lettori, che ne pensate? Amici italiani: vi piace parlare il dialetto con la mamma? Fatevi sentire! (in dialetto, chiaro!)
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